I ricchi Siamesi e così pure i Birmani e anche i Tonchinesi non escono mai senza il portatore della scatola contenente il betel, del cui miscuglio sono avidissimi, e neppure senza il portatore d’ombrello. Sono distintivi di nobiltà, che dànno loro il diritto di farsi largo dovunque.
Procedendo di corsa, gli schiavi giunsero ben presto nei pressi del palazzo reale, dinanzi a cui, su una piazza immensa che si stendeva fino alla riva del Menam, doveva essere cremato il corpaccio del sacro elefante.
Una folla enorme aveva già occupato la piazza, pigiandosi contro le logge destinate ai grandi dello stato e alla corte reale che erano state costruite durante la notte da migliaia e migliaia d’operai.
Nel mezzo era già stata eretta la pira, una gigantesca piramide quadrilatera, mozza alla cima, che si alzava per ben cinquanta metri, formata da enormi tronchi d’albero, congiunti fra loro da anelli di ferro coperti di carta dorata. Da ogni lato della piramide si staccava un’ala lunga tredici metri e diretta verso uno dei quattro punti cardinali, che si congiungeva ad un’altra torre, eguale nella forma a quella centrale, ma di più modeste proporzioni.
Diciotto parasoli, di seta gialla con frange d’oro, donati dal re al S’hen-mheng quando era ancora in vita e che rappresentavano altrettanti titoli di nobiltà, circondavano la piramide, mentre la bandiera reale sventolava sul padiglione scarlatto dell’elefante bianco.
I Siamesi nelle loro cerimonie funebri spendono somme enormi, e le cremazioni dei grandi e dei re o delle principesse di sangue reale si fanno con un sfarzo inaudito.
Basti dire che la sola cremazione della moglie di Tian-fa, annegatasi accidentalmente nel Menam il 31 novembre 1882, costò la bagatella di cinquecentomila sterline!
I due palanchini portanti il generale ed il dottore, sempre preceduti dai due portatori della scatola d’oro e dell’ombrello, si apersero un solco fra quella folla che i soldati a stento trattenevano, distribuendo senza misericordia vergate tali da strappare urla di dolore, e giunsero finalmente sotto una delle logge che era già stata invasa da parecchi dignitari colle loro famiglie.
Lakon-tay, un po’ commosso, salì la gradinata, seguito dal dottore e dai due portatori, e prese posto dietro le file dei dignitari. La sua comparsa produsse però un profondo effetto fra quegli orgogliosi mandarini, che lo credevano ormai completamente liquidato. Vi furono esclamazioni di stupore, sussurrii poco benevoli e nessun saluto.
Anzi, i più vicini lasciarono i loro posti, come se temessero di venire contaminati dall’assassino del sacro elefante.
Lakon-tay, assai turbato ed immerso in tristi pensieri, fortunatamente non si accorse di quelle dimostrazioni ostili. Egli aveva subito fissato gli occhi sulla loggia reale, dove, sotto un baldacchino di seta gialla con lunghe frange, circondato da ombrelli altissimi colle aste d’oro ed a più ordini, se ne stava seduto il re, fra i principi e le principesse di sangue reale.
Il potente monarca non indossava, come il giorno innanzi, l’incomodo costume delle grandi occasioni; anzi, mentre i principi ed i dignitari facevano sfoggio di vesti ricamate d’oro e di perle e di decorazioni sfolgoranti di diamanti e rubini, portava una semplice veste di seta grigia, senza guarnizioni, stretta alla cintura da una fascia di seta azzurra, sostenente una corta sciabola in forma di scimitarra.
Phra-Bard pareva fosse di cattivo umore e rimaneva immobile sulla sua poltrona dorata, senza porgere orecchio a ciò che gli dicevano i ministri ed i principi.
Solamente, di quando in quando, allungava la destra verso la grande e ricchissima scatola d’oro che aveva sul coperchio lo stemma reale in rubini, per prendere qualche pizzico di betel.
Ad un tratto però Lakon-tay, che lo spiava ansiosamente, lo vide volgersi con una certa vivacità a guardare verso la loggia. I suoi occhi si fissarono per un momento sul generale, poi si volsero altrove.
«Vi ha notato,» disse il dottore.
«Sì, mi ha guardato,» rispose il generale.
«Non mi sembra che sia di buon umore.»
«Lo è di rado: non l’ho veduto sorridere che due o tre volte, in tanti anni che lo avvicino.»
«Ecco i talapoini che giungono: la pramana comincia. E dov’è l’elefante?»
«Si trova già entro la piramide,» rispose Lakon-tay.
«Che cosa ne faranno poi delle sue ceneri?»
«Le getteranno nel Menam, che è il nostro maggior fiume sacro. Le ossa che rimarranno si metteranno in un’urna d’oro, che verrà poi deposta nella pagoda di boromanivst, dove si conservano gli avanzi dei re del Siam e di tutti gli altri elefanti bianchi.»
Uno stuolo di talapoini e di talapoinesse, vestiti tutti di seta bianca, il colore usato nelle cerimonie funebri, s’avanzava verso la piramide, salmodiando massime morali nella lingua dei Bali, fiancheggiato da gruppi di suonatori che soffiavano disperatamente entro i pi, specie di chiarine dal suono assai aspro, percuotevano furiosamente degli enormi tapon dalla forma e della grossezza d’un barile, e sbatacchiavano i crab, certe specie di bastoni di legno sonoro, che servono d’accompagnamento alle voci.
Seguivano poi gruppi di ballerini e di ballerine, che avevano alle dita certi unghioni di rame giallo e portavano sul capo degli alti berretti conici ornati di pietre false; poi squadre di schiavi che reggevano dei canestri pieni di resine, di polvere di sandalo e di fiori; quindi dieci o dodici carri, scortati da suonatori di tong, quegli strani strumenti musicali fatti a forma di bottiglia, chiusi in fondo da una pelle che si batte col pugno.
Su tutti quei carri vi erano statue enormi di legno dorato, rappresentanti leoni, tigri, elefanti, mostri favolosi e serpenti colossali.
La processione fece due volte il giro dell’enorme piramide, gettando profumi, fiori e materie resinose, sempre urlando, salmodiando e suonando, poi un talapoino ad un cenno del re annodò ad un angolo della costruzione un largo nastro di seta bianca, legando l’altro capo ad un mucchio di libri sacri: era il mistico legame tra il defunto S’hen-mheng ed i libri di Sommona Kodom.
Quando il nastro fu teso, successe un profondo silenzio: talapoini, talapoinesse e suonatori non fiatavano più. Allora il re scese dal palco reale, tenendo in mano una fiaccola accesa, mentre alcuni soldati spargevano al suolo della polvere da sparo, formando una lunga striscia.
Phra-Bard, visibilmente commosso, diede fuoco alla polvere.
Una striscia di fuoco serpeggiò per la piazza, comunicandosi alle materie resinose che circondavano l’immensa pira.
Per alcuni istanti non si vide che una nuvola immensa di fumo nero avvolgere la piramide, poi fra quelle ondate di fumo guizzarono gigantesche lingue di fuoco, proiettando sulla folla dei bagliori sinistri.
L’immensa mole che racchiudeva il corpaccio del S’hen-mheng, formata quasi tutta di tronchi d’albero resinosi, bruciava con rapidità incredibile, lanciando in aria fasci di scintille.
Tutti i principi, le principesse e i grandi dignitari dello stato accorrevano da tutte le parti a gettare sul rogo una torcia, mentre i talapoini e le talapoinesse mandavano grida acutissime, e rombavano con un fracasso infernale i tapon e i tong.
I ballerini e le ballerine intanto intrecciavano danze, eseguendo il rabam, un ballo riservato per le cerimonie funebri.
La pira fiammeggiava ormai dalla base alla cima ed il fuoco si propagava alle quattro ali e alle quattro torri.
I tronchi scoppiettavano, poi cadevano al suolo con sinistri fragori, mentre si espandeva per l’aria un acre odore di carne bruciata: l’enorme animale rosolava entro quella immane fornace, tuonando come se nel suo corpaccio avessero messo dei petardi.
Le torri, meno elevate e più leggere, crollavano fragorosamente, lanciando in alto turbini di fumo e di scintille; le gallerie delle quattro ali si sfasciavano, ma la piramide resisteva ancora.
Le tenebre erano calate, eppure sulla piazza ci si vedeva meglio che se fosse mezzodì. Perché