Più che altro troppo spocchioso, pensò silenziosamente Keira dentro di sé, alzando lo sguardo e sorridendo. “Te l’ho mandata per email prima di andare a casa, venerdì.”
“Mandamela di nuovo,” ordinò Joshua senza battere ciglio. “Non ho tempo di rovistare nella mail per ritrovarla.”
“Nessun problema,” disse Keira, rimanendo cordiale come al solito.
Joshua ritornò come una furia in ufficio e Keira gli rispedì l’email con l’enorme quantità di informazioni che aveva raccolto sul Festival dell’Amore irlandese, sogghignando tra sé e sé all’idea di quanto fosse melenso e disgustosamente romantico.
La sua email aveva appena lasciato l’Inbox, quando le porte si aprirono e gli scrittori dello staff del Viatorum entrarono in massa, fingendo dal primo all’ultimo di non essere irritati di dover tornare a lavoro in quella che avrebbe dovuto essere una festività nazionale. Keira li sentì chiacchierare e cercare di fare a gara sottolineando i loro vari sacrifici.
“Mia nipote partecipa a un campionato di baseball,” stava dicendo Lisa. “Ma questo è molto più importante. Ha pianto disperatamente quando le ho detto che dovevo andare via, ma so che capirà quando sarà grande abbastanza da avere una sua carriera.”
Duncan non voleva essere da meno. “Io ho dovuto lasciare Stacy all’aeroporto. Voglio dire, possiamo andare un’altra volta a Madrid, non se ne va da nessuna parte.”
“Io ho appena lasciato mia madre in un letto d’ospedale,” intervenne Victoria. “Non è che sia in punto di morte o malata grave, e comunque lo sa che la mia carriera viene prima.”
Keira sogghignò di nascosto. L’atmosfera competitiva al Viatorum le sembrava completamente inutile. Lei voleva riuscire ad avere successo grazie al suo impegno, alle capacità e al duro lavoro, invece che alle chiacchiere e alle lusinghe ai superiori. Ciò non significava che non fosse concentrata sulla sua carriera, che era la cosa più importante della sua vita anche se non lo avrebbe mai ammesso a Zachary, ma non voleva cambiare se stessa per adattarsi all’ambiente lavorativo della rivista. Spesso si sentiva in sospeso, in attesa che arrivasse il suo momento di brillare.
Un secondo più tardi il suo cellulare vibrò. Nina le aveva mandato uno dei suoi messaggi segreti.
Scommetto che Joshua non ti ha avvisata che alla riunione ci sarà anche Elliot.
Keira trattenne un sussulto per la sorpresa. Anche se l’amministratore delegato del Viatorum era molto più gentile di Joshua, in sua presenza provava più trepidazione. Quell’uomo aveva in mano le chiavi del suo futuro. Era lui ad avere il potere di assumere e licenziare sul posto, erano le sue le opinioni che importavano veramente. Joshua non avrebbe mai detto a Keira se aveva fatto un buon lavoro o se la sua scrittura era migliorata, nonostante tutto il suo impegno. Elliot, d’altra parte, concedeva complimenti quando erano meritati, che era un evento raro ma per questo ancora più prezioso quando avveniva.
Stava per rispondere al messaggio di Nina, quando udì il suono dei passi di Joshua che si avvicinavano rapidamente.
“Che diavolo è questa robaccia, Keira?” esplose l’uomo prima ancora di aver raggiunto la sua scrivania.
Le sue parole riecheggiarono nell’ufficio. Tutti gli scrittori si voltarono per guardare l’ultima sferzata verbale, simultaneamente grati di non esserne i destinatari ed eccitati dalla prospettiva che qualche altro agnello sacrificale avrebbe soddisfatto la brama di sangue di Joshua.
“Chiedo scusa?” chiese amabilmente Keira, anche se il cuore le batteva forte.
“Quelle stupidaggini sull’Irlanda! È tutto inutile!”
Keira non era certa di come rispondere. Sapeva di aver fatto una buona ricerca; si era attenuta alle indicazioni e aveva presentato le sue scoperte in un documento di facile consultazione; si era fatta in quattro. Joshua era solo di pessimo umore e si stava sfogando su di lei. Semmai quello era un test per vedere come avrebbe reagito a un attacco verbale in pubblico.
“Posso fare qualche altra ricerca se preferisci,” rispose Keira.
“Non c’è abbastanza tempo!” gridò Joshua. “Elliot sarà qui tra quindici minuti!”
“A dire la verità,” intervenne Nina, “la sua auto è appena arrivata.” Si sporse nella sua sedia da ufficio per guardare fuori dall’ampia vetrata.
Joshua assunse un colorito rosso acceso. “Non sarò io ad assumermi la responsabilità, Swanson,” disse, puntando il dito verso Keira. “Se Elliot rimarrà deluso, gli farò sapere di chi è la colpa.”
Tornò a grandi passi verso la sua scrivania separata dalle altre. Ma strada facendo, una delle sue scarpe di vernice atterrò esattamente su una pozza di caffè che uno dei suoi scrittori aveva fatto cadere sul pavimento nell’ansia di mettersi a lavoro.
Per un momento tutto rimase in sospeso, ma Keira riuscì a percepire che stava per avvenire qualcosa di terribile. Poi iniziò, il lungo scivolone di Joshua simile a quello di un cartone animato, e i suoi goffi tentativi per rimanere in piedi. Contorse il torace in una buffa danza, cercando di rimanere diritto. Ma la combinazione delle piastrelle di granito e del caffè macchiato fu troppo potente.
Joshua perse completamente l’equilibrio, una gamba gli schizzò in avanti mentre l’altra si piegava goffamente sotto di lui. Tutti sussultarono quando atterrò pesantemente e con un tonfo sul duro pavimento. Un rumore secco risuonò nel grande ufficio, riecheggiando in maniera nauseabonda.
“La mia gamba!” urlò Joshua, stringendosi la tibia attraverso i pantaloni blu elettrico. “Mi sono rotto la gamba!”
Lo staff sembrava paralizzato per la sorpresa. Keira corse da lui, incerta di cosa fare per aiutarlo, ma certa che spaccarsi una gamba in quel modo fosse impossibile.
“Non sarà rotta,” balbettò, cercando di essere rassicurante. Ma fu prima che le cadesse lo sguardo sulla brutta angolazione della sua gamba, e sullo strappo nei pantaloni attraverso il quale vide sporgere l’osso. La nausea l’assalì. “A dir la verità…”
“Non stare lì ferma!” gridò Joshua, contorcendosi a terra per il dolore. Controllò la ferita con gli occhi socchiusi. “Oh, Dio!” urlò. “Mi sono strappato i pantaloni! Valgono più di un mese del tuo stipendio!”
Proprio in quel momento, le porte d’ingresso di vetro si aprirono ed Elliot entrò.
Se anche l’uomo non fosse stato alto un metro e novanta, avrebbe avuto un aspetto imponente. C’era qualcosa in lui, nel modo in cui si comportava. Poteva incutere terrore e obbedienza nelle persone con un solo sguardo.
Come cervi abbagliati dai fanali di un’auto, tutti gli impiegati si bloccarono sul posto e lo fissarono intimoriti. Lo spavento ammutolì persino Joshua.
Elliot osservò la scena davanti a sé: Joshua steso per terra, a stringersi la gamba gridando di dolore, Keira china impotente su di lui, gli scrittori alle loro scrivanie con espressioni sconvolte sui volti.
Ma lui rimase impassibile. “Qualcuno ha chiamato un’ambulanza per Joshua?” Si limitò a dire.
Tutti si misero improvvisamente in moto.
“Lo faccio io!” iniziarono a dire uno sopra l’altro afferrando i telefoni sulle scrivanie, ansiosi di farsi notare come i salvatori davanti a Elliot.
Una patina di sudore brillava sulla