Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2
CAPITOLO XI
Sotto i deplorabili regni di Valeriano e di Gallieno, l'Impero fu oppresso e quasi distrutto dai Soldati, dai Tiranni e dai Barbari. Lo salvò una serie di gran Principi, che traevano un'oscura origine dalle marziali province dell'Illirico. Nel giro di quasi trenta anni Claudio, Aureliano, Probo, Diocleziano, ed i suoi colleghi trionfarono degli stranieri e de' domestici nemici dello Stato; ristabilirono la militar disciplina, la forza delle frontiere, e meritarono il glorioso titolo di Ristauratori del Mondo Romano.
La caduta di un effemminato tiranno aprì la strada ad una successione di Eroi. L'indignazione del popolo imputava a Gallieno tutte le sue calamità; e la maggior parte, invero, erano conseguenze de' suoi costumi e della indolente sua condotta nel governo. Era privo perfino del sentimento di onore, che supplisce sì spesso alla mancanza della pubblica virtù; e finchè potè godere il possesso dell'Italia, una vittoria riportata dai Barbari, la perdita di una provincia, o la ribellione di un Generale, raramente disturbò il tranquillo corso de' suoi piaceri. Finalmente un esercito considerabile, accampato sul Danubio superiore, rivestì della porpora Imperiale il suo condottiero Aureolo, che sdegnando un angusto ed infecondo regno sulle montagne della Rezia, passò le Alpi, occupò Milano, minacciò Roma, e sfidò Gallieno a disputare in campo la sovranità dell'Italia. Provocato dall'insulto l'Imperatore, ed intimorito dall'imminente pericolo, subitamente mostrò quell'ascoso vigore, che qualche volta si manifestava a traverso l'indolenza del suo carattere. Staccatosi con violenza dagli agi del palazzo, comparve armato in fronte alle sue legioni, e si avanzò ad incontrare di là dal Po il suo competitore. Il corrotto nome di Pontirolo1 conserva ancora la memoria di un ponte sull'Adda, che, durante l'azione, debbe essere stato un oggetto della maggiore importanza per ambo gli eserciti. Il Retico usurpatore, dopo aver ricevuto una totale disfatta ed una pericolosa ferita, si ritirò in Milano. Ne fu immediatamente formato l'assedio; furon le mura battute con ogni macchina dagli antichi usata; ed Aureolo, incerto della interna sua forza, e senza speranza di straniero soccorso, si presagì fin d'allora le funeste conseguenze di una inutile ribellione.
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L'ultimo suo espediente fu un tentativo di sedurre la lealtà degli assediatori. Sparse pel loro campo de' libelli, ne' quali invitava le truppe ad abbandonare un indegno Sovrano, che sacrificava al suo lusso la pubblica felicità, e le vite dei suoi più stimabili sudditi ai più leggieri sospetti. Gli artifizj di Aureolo diffusero i timori, gli scontenti tra i principali Uffiziali del suo rivale. Una cospirazione fu tramata da Eracliano Prefetto del Pretorio, da Marciano Generale di alto grado e di riputazione, e da Cecrope, che comandava un numeroso corpo di guardie dalmatine. La morte di Gallieno fu risoluta, e non ostante il lor desiderio di prima terminare l'assedio di Milano, l'estremo pericolo, che accompagnava ogni momento d'indugio, gli obbligò ad affrettare l'esecuzione del loro ardito disegno. Sull'ultim'ora della notte, mentre l'Imperatore tuttavia prolungava i piaceri della tavola, gli fu portata improvvisamente la nuova, che Aureolo, alla testa di tutte le sue forze, avea fatta dalla città una disperata sortita; Gallieno, che non mancò mai di valor personale, balzò dal suo serico letto, e senza frappor dimora per armarsi o per adunar le sue guardie, montò a cavallo, e corse veloce al luogo del supposto assalto. Circondato dai suoi dichiarati o nascosti nemici, in mezzo al tumulto notturno ricevè ben presto un colpo mortale da incerta mano. Prima di spirare, un sentimento di patriottismo, risvegliatosi nell'animo di Gallieno, lo indusse a nominare un degno successore, e l'ultima sua domanda fu che si dessero gli ornamenti imperiali a Claudio, che allora comandava un corpo staccato d'armata nelle vicinanze di Pavia. Almeno questa voce fu diligentemente propagata, e l'ordine con piacere eseguito dai congiurati, i quali avevan di già convenuto di metter Claudio sul trono. Alla prima nuova della morte dell'Imperatore, mostrarono le truppe qualche sospetto e risentimento, finchè l'uno fu dissipato, e l'altro addolcito con un donativo di venti monete d'oro ad ogni soldato. Ratificarono essi allora l'elezione, e riconobbero il merito del loro nuovo Sovrano2.
L'oscurità, che ricopriva l'origine di Claudio, benchè fosse di poi abbellita da alcune adulatrici finzioni3, manifesta abbastanza la bassezza della sua nascita. Questo solamente si può sapere, ch'egli era nativo di una delle Province confinanti col Danubio; che la sua gioventù fu consumata tra l'armi, e che il suo modesto valore meritò il favore e la confidenza di Decio. Il Senato ed il Popolo già lo consideravano come un eccellente Uffiziale, degno dei più importanti impieghi; e censurarono la disattenzione di Valeriano, che lo teneva nel posto subordinato di Tribuno. Ma distinse non molto dopo quell'Imperatore il merito di Claudio, dichiarandolo primo Generale della frontiera Illirica col comando di tutte le truppe nella Tracia, nella Mesia, nella Dacia, nella Pannonia e nella Dalmazia, collo stipendio del Prefetto dell'Egitto, con gli onori del Proconsole dell'Affrica, e con la sicura speranza del Consolato. Per le sue vittorie sopra i Goti egli meritò dal Senato l'onore di una statua, ed eccitò i gelosi timori di Gallieno. Era impossibile che un soldato stimar potesse un Sovrano così dissoluto, ed un giusto disprezzo si può difficilmente celare. Alcune imprudenti espressioni proferite da Claudio, furono officiosamente riportate a Gallieno. La risposta dell'Imperatore ad un Uffiziale di confidenza, dipinge al vivo il carattere di lui e quello dei tempi. «Niente vi è che dar mi possa un più serio disgusto che la notizia contenuta nell'ultimo vostro dispaccio4; che alcune maligne suggestioni abbiano indisposto contro noi l'animo del nostro amico e Padre Claudio. Per quella fedeltà che ci dovete, usate ogni mezzo per quietare il suo risentimento, ma conducete l'affare con secretezza; non venga questo a notizia dei soldati della Dacia; sono essi già provocati, e ciò potrebbe infiammare il loro furore. Io stesso ho mandati a lui alcuni doni; sia vostra cura ch'egli con piacere li accetti. Sopra tutto fate ch'ei non sospetti ch'io sono informato della sua imprudenza. Il timor del mio sdegno potrebbe indurlo a disperate risoluzioni»5. I doni che accompagnavano questa umile lettera, colla quale il Monarca, procurava di riconciliare a sè il malcontento suo suddito, consistevano in una considerabil somma di danaro, in abiti magnifici ed in un ricco vasellame d'oro e d'argento. Con tali arti Gallieno addolcì lo sdegno, e dissipò i timori del suo illirico Generale; ed in tutto il rimanente di quel regno fu la formidabile spada di Claudio sempre sguainata per la causa di un Sovrano da lui disprezzato. Vero è, ch'egli ricevè finalmente dai congiurati l'insanguinata porpora di Gallieno; ma egli era stato lontano dal loro campo e dai loro consigli; e benchè forse lodasse il fatto, possiamo francamente presumere, ch'egli non fosse reo di alcuna antecedente notizia6. Quando Claudio salì sul trono, era quasi nell'età di cinquantaquattr'anni.
L'assedio di Milano fu tuttavia continuato, ed Aureolo presto si avvide, che i suoi artifizj non avevano avuto altro successo che di suscitargli un più risoluto avversario. Tentò egli di aprire con Claudio un trattato di alleanza e di divisione. «Ditegli» (replicò l'intrepido Imperatore) «che se tali proposizioni fossero state fatte a Gallieno, egli forse le avrebbe pazientemente ascoltate, ed avrebbe accettato un collega disprezzabile al pari di lui7.» Questo duro rifiuto, ed un ultimo infelice sforzo obbligarono Aureole a rendersi con la città alla discrezione del vincitore. Il giudizio dell'esercito lo dichiarò degno di morte, e Claudio, dopo una debole resistenza, consentì che fosse la sentenza eseguita. Nè lo zelo dei Senatori fu meno ardente per la causa del loro nuovo Sovrano. Ratificarono forse con un sincero trasporto d'animo l'elezione di Claudio, e siccome il Predecessore si era mostrato personal nemico del loro ordine, così esercitarono sotto il velo della giustizia una severa vendetta contro gli amici o la famiglia di lui. Fu permesso al Senato di addossarsi l'odioso uffizio del castigo, e l'Imperatore si riservò il piacere ed il merito di ottener con la sua intercessione un atto di generale perdono8.
Questa ostentata clemenza mostra meno il vero carattere di Claudio di quel che il faccia una frivola circostanza, nella qual sembra ch'egli abbia obbedito ai dettami del suo cuore. Le frequenti ribellioni delle province avevano involto quasi ogni persona nel reato di tradimento, quasi ogni patrimonio nel caso di confiscazione, e Gallieno