L’INNOCENTE
Beati immaculati…
Andare davanti al giudice, dirgli: «Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa. Ho premeditato l’assassinio, nella mia casa. L’ho compiuto con una perfetta lucidità di conscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l’anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi». Posso andare davanti al giudice, posso parlargli così?
Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.
Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.
A CHI?
Il primo ricordo è questo.
Era di aprile. Eravamo in provincia, da alcuni giorni, io e Giuliana e le nostre due bambine Maria e Natalia, per le feste di Pasqua, in casa di mia madre, in una grande e vecchia casa di campagna, detta La Badiola. Correva il settimo anno dal matrimonio.
Ed erano già corsi tre anni da un’altra Pasqua che veramente m’era parsa una festa di perdono, di pace e d’amore, in quella villa bianca e solinga come un monasterio, profumata di violacciocche; quando Natalia, la seconda delle mie figliuole, tentava i primi passi, uscita allora allora dalle fasce come un fiore dall’invoglio, e Giuliana si mostrava per me piena d’indulgenza, sebbene con un sorriso un po’ malinconico. Io era tornato a lei, pentito e sommesso, dopo la prima grave infedeltà. Mia madre, inconsapevole, con le sue care mani aveva posto un ramoscello d’olivo a capo del nostro letto e aveva riempita la piccola acquasantiera d’argento che pendeva dalla parete.
Ma ora, in tre anni, quante cose mutate! Tra me e Giuliana era avvenuto un distacco definitivo, irreparabile. I miei torti verso di lei s’erano andati accumulando. Io l’aveva offesa nei modi più crudeli, senza riguardo, senza ritegno, trascinato dalla mia avidità di piacere, dalla rapidità delle mie passioni, dalla curiosità del mio spirito corrotto. Ero stato l’amante di due tra le sue amiche intime. Avevo passato alcune settimane a Firenze con Teresa Raffo, imprudentemente. Avevo avuto col falso conte Raffo un duello in cui il mio disgraziato avversario s’era coperto di ridicolo, per talune circostanze bizzarre. E nessuna di queste cose era rimasta ignota a Giuliana. Ed ella aveva sofferto, ma con molta fierezza, quasi in silenzio.
C’erano stati pochissimi dialoghi tra noi, e brevi, in proposito; nei quali io non avevo mai mentito, credendo con la mia sincerità diminuire la mia colpa agli occhi di quella dolce e nobile donna che io sapevo intellettuale.
Anche sapevo che ella riconosceva la superiorità della mia intelligenza e che scusava in parte i disordini della mia vita con le teorie speciose da me esposte più d’una volta in presenza di lei a danno delle dottrine morali professate apparentemente dalla maggioranza degli uomini. La certezza di non essere giudicato da lei come un uomo comune alleggeriva nella mia conscienza il peso dei miei errori. «Anch’ella dunque – io pensavo – comprende che, essendo io diverso dagli altri ed avendo un diverso concetto della vita, posso giustamente sottrarmi ai doveri che gli altri vorrebbero impormi, posso giustamente disprezzare l’opinione altrui e vivere nella assoluta sincerità della mia natura eletta.»
Io ero convinto di essere non pure uno spirito eletto ma uno spirito raro; e credevo che la rarità delle mie sensazioni e dei miei sentimenti nobilitasse, distinguesse qualunque mio atto. Orgoglioso e curioso di questa mia rarità, io non sapevo concepire un sacrificio, un’abnegazione di me stesso, come non sapevo rinunciare a un’espressione, a una manifestazione del mio desiderio. Ma in fondo a tutte queste mie sottigliezze non c’era se non un terribile egoismo; poiché, trascurando gli obblighi, io accettavo i benefizi del mio stato.
A poco a poco, infatti, di abuso in abuso, io era giunto a riconquistare la mia primitiva libertà col consenso di Giuliana, senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza menzogne degradanti. Io mettevo il mio studio nell’esser leale, a qualunque costo, come altri nel fingere. Cercavo di confermare in tutte le occasioni, tra me e Giuliana, il nuovo patto di fraternità, di amicizia pura. Ella doveva essere la mia sorella, la mia migliore amica.
Una mia sorella, l’unica, Costanza, era morta a nove anni lasciandomi in cuore un rimpianto senza fine. Io pensavo spesso, con una profonda malinconia, a quella piccola anima che non aveva potuto offrirmi il tesoro della sua tenerezza, un tesoro da me sognato inesauribile. Fra tutti gli affetti umani, fra tutti gli amori della terra, quello sororale m’era sempre parso il più alto e il più consolante. Io pensavo spesso alla grande consolazione perduta, con un dolore che la irrevocabilità della morte rendeva quasi mistico. Dove trovare, su la terra, un’altra sorella?
Spontaneamente, questa aspirazione sentimentale si volse verso Giuliana. Sdegnosa di mescolanze, ella aveva già rinunziato ad ogni carezza, a qualunque abbandono. Io già da tempo non provavo più neppur l’ombra d’un turbamento sensuale, standole accanto; sentendo il suo alito, aspirando il suo profumo, guardando il piccolo segno bruno ch’ella aveva sul collo, io rimanevo nella più pura frigidità. Non mi pareva possibile che quella fosse la donna medesima che un giorno io aveva veduto impallidire e mancare sotto la violenza del mio ardore.
Io le offersi dunque la mia fraternità; ed ella accettò, semplicemente. Se ella era triste, io era più triste ancóra, pensando che noi avevamo sepolto il nostro amore per sempre, senza speranza di resurrezione; pensando che le nostre labbra non si sarebbero forse unite mai più, mai più. E, nella cecità del mio egoismo, mi parve che ella dovesse in cuor suo essermi grata di quella mia tristezza che io già sentivo immedicabile, e mi parve che ella dovesse anche esserne paga e consolarsene come d’un riflesso del lontano amore.
Ambedue un tempo avevamo sognato non pur l’amore ma la passione fino alla morte, usque ad mortem. Ambedue avevamo creduto al nostro sogno e avevamo proferito più d’una volta, nell’ebrezza, le due grandi parole illusorie: Sempre! Mai! Avevamo perfino creduto all’affinità della nostra carne, a quell’affinità rarissima e misteriosa che lega due creature umane col tremendo legame del desiderio insaziabile; ci avevamo creduto perché l’acutezza delle nostre sensazioni non era diminuita neppure dopo che, avendo noi procreato un nuovo essere, l’oscuro Genio della specie aveva raggiunto per mezzo di noi il suo unico intento.
L’illusione era caduta; ogni fiamma era spenta. La mia anima (lo giuro) aveva pianto sinceramente su la ruina. Ma come opporsi a un fenomeno necessario? Come evitare l’inevitabile?
Era dunque gran ventura che, morto l’amore per le necessità fatali dei fenomeni e quindi senza colpa di alcuno, noi potessimo ancóra vivere nella stessa casa tenuti da un sentimento nuovo, forse non meno profondo dell’antico, certo più elevato e più singolare. Era gran ventura che una nuova illusione potesse succedere all’antica e stabilire tra le nostre anime uno scambio di affetti puri, di commozioni delicate, di squisite tristezze.
Ma, in realtà, questa specie di retorica platonica a qual fine tendeva? Ad ottenere che una vittima si lasciasse sacrificare sorridendo.
In realtà, la nuova vita, non più coniugale ma fraterna, si basava tutta su un presupposto: su l’assoluta abnegazione della sorella. Io riconquistavo la mia libertà, potevo andare in cerca delle sensazioni acute di cui avevano bisogno i miei nervi, potevo appassionarmi per un’altra donna, vivere fuori della mia casa e trovare la sorella ad aspettarmi, trovare nelle mie stanze la traccia visibile delle sue cure, trovare sul mio tavolo in una coppa le rose disposte dalle sue mani, trovare da per tutto l’ordine e l’eleganza e il nitore come in un luogo abitato da una Grazia. Questa mia condizione non era invidiabile? E non era straordinariamente preziosa la donna che consentiva a sacrificarmi la sua giovinezza, paga soltanto di essere baciata con gratitudine e quasi con religione su la fronte altera e dolce?
La mia gratitudine talvolta diveniva così calda che si espandeva in una infinità di delicatezze, di premure affettuose. Io sapevo essere il migliore dei fratelli. Quando ero assente, scrivevo a Giuliana lunghe lettere malinconiche e tenere che spesso partivano insieme con quelle dirette alla mia amante; e la mia amante non avrebbe potuto esserne gelosa, allo stesso modo che non poteva esser gelosa della mia adorazione per la memoria di Costanza.
Ma, sebbene assorto