L’Esclusa
Luigi Pirandello
e-ISBN: 9783963617577
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Introduzione
L'esclusa è un romanzo di Luigi Pirandello, il cui titolo originario era Marta Ajala. Finito di scrivere nel 1893, fu pubblicato a puntate nel 1901 sulla rivista La Tribuna e, nel 1908, in volume. Pirandello lavora sullo sfondo tipico della letteratura del Verismo, ricca di dinamiche sociali ben descritte nei loro pregiudizi e nelle loro sanzioni; a questo, l'autore aggiunge una vicenda che rimanda ai paradossi del dramma esistenziale, del contrasto tra sostanza e apparenza.
Dal romanzo emerge anche il relativismo conoscitivo, ovvero l'impossibilità di avere una realtà oggettiva; infatti la donna è convinta che la scelta del marito di cacciarla di casa sia una scelta errata (perché, appunto, innocente), di contro il marito è fermamente certo che cacciare di casa la moglie adultera sia la cosa migliore (almeno in un primo momento, poi sarà afflitto dai sensi di colpa e tenterà di farla ritornare).
È quindi evidente che entrambi i personaggi sono certi di possedere la verità, dimostrando l'inesistenza di una realtà oggettiva univoca e veritiera. Inoltre, il romanzo "gira" attorno ad un motto in latino: "NIHIL-MIHI–CONSCIO" (presente alla fine di quasi tutte le lettere dell'Alvignagni), che letteralmente significa "La coscienza non mi basta", quando tutti credono che tu abbia fatto qualcosa o ti comporti in un certo modo, non ti basta sapere dentro te stesso che non è vero. Lo devi esternare, devi convincere anche gli altri. Altrimenti la frustrazione ti domina e vorresti ferire le altre persone (proprio come succede a Marta).
Marta è una giovane ragazza sposata con Rocco Pentagora. Il marito scopre alcune lettere inviatele da un ammiratore (Gregorio Alvignani) e la giovane viene così accusata ingiustamente di adulterio e cacciata da casa: il marito l'abbandona e viene disprezzata da tutti. Il padre si isola nella sua camera e al momento del difficile parto di Marta muore, come il bambino di Marta. Così nella disperazione, la famiglia subisce ingiustizie da parte della gente del paese, ormai al corrente dei fatti accaduti; dopo la morte del padre la conceria viene affidata a Paolo Sistri, l'attività fallisce e la famiglia cade in miseria. Marta comincia a studiare e partecipa, pur non essendo appoggiata dall'ex-marito Rocco, dalla madre Agata e dall'unica amica rimasta, Anna, al concorso per il posto di maestra presso la scuola dell'istituto.
Marta vince il concorso, ma viene esclusa e sostituita da una raccomandata. La madre decide di parlare col direttore della scuola, che le concede un posto, nonostante ciò Marta viene costretta dalle alte cariche del paese a fingersi malata. Il direttore, aiutato dall'oramai deputato Alvignani, trova di nuovo una soluzione: Marta viene trasferita con la sorella e la madre a Palermo.
La vita migliora molto a Palermo: la loro storia è all'oscuro di tutti e a scuola Marta si trova bene, anche se molti colleghi le fanno la corte. Durante il soggiorno palermitano Marta rincontra l'Alvignani e, credendo di esserne innamorata, ha un figlio da lui. Contemporaneamente viene chiamata dalla madre di Rocco, anche lei accusata d'infedeltà, Marta chiama subito Rocco. Quando arriva, i due vegliano insieme le ultime ore della madre. In seguito, Marta viene completamente riaccettata in famiglia, nonostante il fatto che per la prima volta sia accaduto un tradimento.
Parte Prima
I
Antonio Pentàgora s'era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla.
Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po' stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero.
Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l'altro figlio, Rocco, che rientrava in casa, quella sera, dopo la disgrazia.
Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s'erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt'e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po' avvallato, di mattoni rosi, spirava un tanfo indefinibile, d'appassito.
Finalmente, Rocco apparve sulla soglia, cupo, disfatto. Era uno stangone biondo, di pochi capelli, scuro in viso e con gli occhi biavi, quasi vani e smarriti, che però gli diventavano cattivi quando aggrottava le sopracciglia e stringeva la bocca larga, dalle labbra molli, violacee. Camminando sulle gambe aperte, si dimenava sul busto e seguiva con la testa e con le braccia l'andatura. Ogni tanto aveva un tic alle corde del collo che gli faceva protendere il mento e tirare in giù gli angoli della bocca.
– Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! – esclamò il padre fregandosi le grosse mani ruvide, piene d'anelli massicci.
Rocco stette un po' a guardare i tre seduti a tavola, poi si buttò su la prima seggiola presso l'uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi.
– Oh, e àlzati! – riprese il Pentàgora. – T'abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola d'onore, fino alle dieci… no, più, più… che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato, qua, come prima.
E chiamò, forte:
– Signora Popònica!
– Epponìna, – corresse Niccolino a bassa voce.
– Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso?
Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò:
– Chi è Popònica?
– Ah! una signora caduta in bassa fortuna, – rispose allegramente il padre. – Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge.
– Romagnola, – aggiunse Niccolino, sommessamente.
Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino cauto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccare la lingua:
– Buono! – disse. – Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l'occhio… Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio!
E tracannò il resto in un fiato.
– Non vuoi cenare? – domandò poi.
– Non può cenare, – osservò piano Niccolino.
Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch'empiva penosamente lo stanzone. Ed ecco la signora Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrare tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole, sconciate dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita a mo' di grembiule. La tintura dei capelli, l'aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato qualcosa di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote.
Subito Antonio Pentàgora con la mano le fe' cenno d'andar via: non c'era più bisogno di lei, poiché Rocco non voleva cenare. Quella inarcò le ciglia, sbalzandole fin sotto i capelli, distese su gli occhi dolenti le pàlpebre cartilaginose, e andò via, dignitosa, sospirando.
– Ricòrdati,